Tremonti caparbio

Restare ancorati ad una prospettiva di stabilità

di Oscar Giannino

La manovra finanziaria pluriennale varata dal governo ha un merito, che appartiene innanzitutto alla caparbietà di Giulio Tremonti. Assume con un atto solenne, e con declinazione di tagli alla spesa e nuove entrate conseguenti, un obiettivo che era ed è assolutamente privo di alternative. Cioè il conseguimento concreto al 2014 di quell’impegno assunto in Europa, l’azzeramento del deficit pubblico italiano, che va e andrà considerato nei prossimi anni come scritto sul marmo. La perdurante crisi dell’eurodebito e la costante volatilità dei mercati obbligano tutti – maggioranza e opposizione – a muoversi d’ora in poi in questo forzato orizzonte. E’ un bene assoluto per la Repubblica, e si aggiunge ai bassi deficit degli anni recenti, che ci hanno tenuto lontano dalla testa di lista degli euromembri che suscitano sfiducia e rischiano il default.

Ora, bisognerà vigilare che nella sua traduzione concreta in legge di stabilità nei prossimi anni, i saldi complessivi non vengano attenuati e compromessi, occorrerà battersi perché maggioranza, opposizione e forze sociali restino tutti saldamente ancorati a questa prospettiva di stabilità che identifica la saldezza della Repubblica e la piena onorabilità dei suoi debiti.

Naturalmente, una manovra di quasi tre punti di Pil di 3 anni non può soddisfare tutti. Ma da parte di chi coltiva con orgoglio la tradizione della politica di rigore seguita nella storia dal Partito Repubblicano il motivo di insoddisfazione è tutt’altro e diverso, rispetto a quello delle tante voci critiche levatesi in questi primi giorni successivi alla manovra. Noi non siamo tra coloro che lamentano l’eccessività dei tagli, che valgono i due terzi dell’obiettivo di 43-45 miliardi di euro. Al contrario, una volta azzerato il deficit, resterà di fronte a noi il compito successivo, cioè un grande accordo nazionale per arrestare in maniera definitiva la deriva inerziale alla crescita sia della spesa pubblica sia delle entrate. Poiché ancora una volta i 45 miliardi di miglior saldo che servono triennalmente ad azzerare il deficit avvengono in presenza di una spesa pubblica totale che salirà nel frattempo da 793 a 860 miliardi, e di entrate che in previsione sono previste salire di altri 93 miliardi dai 722 del 2010.

Di questi 93 miliardi di nuove entrate, solo 25 andranno a copertura del deficit, ma altri 67 andranno invece a coprire la spesa corrente che continuerà a salire, malgrado i tagli previsti in questa manovra.

Ed è questo, voglio dirlo all’inizio, il punto di vista "nostro" del rigore che resta insoddisfatto. Un’Italia che continuasse nella tendenza di uscite ed entrate complessive sopra il 53% e sopra il 48% del Pil, sarebbe un Paese in cui inevitabilmente continuerebbe a essere troppo forte il morso della finanza pubblica sulle forze produttive e dell’impresa, del lavoro e degli investimenti. Di qui viene la bassa crescita italiana, il problema numero uno con il quale ci confrontiamo ormai da un quindicennio. Ma è un problema - bisogna avere l’onestà di ammetterlo – che possiamo affrontare solo una volta messi in sicurezza i saldi pubblici, come questa manovra ha l’ambizione di proporsi.

Nel merito delle tante misure avanzate, è possibile qui solo esprimere alcuni giudizi sommari.

Risponde a una generale richiesta che è stata positivamente accolta dal ministro Tremonti, il nuovo criterio per proseguire nel contenimento di spesa delle amministrazioni pubbliche centrali, quelle il cui costo per beni intermedi ha già ottenuto le migliori prestazioni negli ultimi sei anni, con un più 17% di incremento a differenza del più 23% di quelli dei Comuni, del più 37% delle Regioni, del più 50% delle forniture in sanità, che da sola pesa per la metà dei circa 140 miliardi di euro a cui ammonta il totale dei consumi intermedi dell’intera Pubblica amministrazione italiana. Il criterio è quello della spending reviw che consentirà a ciascun ministro ed ente centrale di modulare al meglio il proprio rientro di spesa prefissato per 5 miliardi complessivi, fermo restando che al Tesoro resta la facoltà ultima di intervento in caso di insuccesso.

Ma è sul più del contenimento previsto di spesa – quello relativo alle Autonomie – che ancora una volta si appunteranno le maggiori difficoltà. Si tratta del 40% del rientro di spesa complessivo, 9,6 miliardi tra Comuni, Province e Regioni ordinarie, compresi 2,4 miliardi dalle Regioni a statuto speciale finalmente anch’esse toccate. Se si sommano i 5-7 miliardi di risparmi previsti sulla sanità, tra anticipazione dei cosiddetti costi standard dal 2013 e il doppio scalino di ripristino dei ticket per farmaci e specialistica, siamo praticamente a oltre la metà dell’intera manovra.

Ma su tale ammontare tanto rilevante pesa un’incognita che è insieme una sfida. Poiché l’intervento richiesto impatta direttamente il perimetro delle spese delle Autonomie che era stato definito sin qui a parità di risorse attraverso i decreti attuativi della delega sul federalismo fiscale in materia di finanza comunale, provinciale, regionale e sanitaria, è pressoché certo che Anci e Conferenza delle Regioni oppongano a queste nuove misure una ferma opposizione. Sarà dunque richiesta, di qui alla prossima legge di stabilità e anno per anno entro il 2014, un’azione di paziente confronto con le Autonomie. Sinché non entreremo una volta per tutte in un più equilibrato quadro di responsabilità, tra risorse proprie della finanza locale e responsabilità di spesa, è inevitabile che i governi tentino di esercitare tutti i correttivi del caso. Ma è essenziale che le Autonomie non ragionino a prescindere dai saldi, perché il giorno in cui il default italiano dovesse riavvicinarsi non prevederebbe eccezioni per loro.

Su altri comparti di spesa, il rigore repubblicano avrebbe preferito che non si procedesse a diluizioni della manovra originariamente prevista. In materia previdenziale, era giusto predisporre la parificazione dell’età pensionabile per le donne a 65 anni nel settore privato – com’è già per il settore pubblico, in adempimento alla volontà europea - a partire dal 2013 ed entro il 2020, non a partire dal 2020 ed entro il 2032. Come sarebbe stato più opportuno prevedere l’applicazione automatica dei parametri di allungamento di vita attesa per il calcolo dei rendimenti a partire sempre dal 2013 invece che dal 2014: con queste due misure si sarebbe evitata oltretutto la perequazione al solo 45% dell’inflazione delle pensioni tra tre e cinque volte il minimo, prevista nella manovra e che comprensibilmente suscita opposizione da parte sindacale e delle opposizioni, visto che stiamo parlando di poco più di duemila euro lordi al mese in totale e dunque, a tutti gli effetti, di ceto medio e non di ceti agiati L’anticipo dell’età pensionabile femminile più elevata nel settore privato e dell’aggiornamento all’attesa di vita sarebbe strutturale e permanente, al contrario del blocco dell’indicizzazione previsto come tampone in manovra.

Sui costi della politica, avrà un compito difficile, la commissione permanente di tecnici guidata dal presidente dell’Istat, con lo scopo di adeguare tutti i trattamenti retributivi, indennità e benefici ai parametri europei. Sappiamo bene che per decreto legge non si possono toccare le prerogative delle Camere e delle istituzioni costituzionalmente esentate dalla disciplina autorizzativa della Corte dei Conti. Ma ora che il criterio è stato indicato, sarebbe insensato per tutti boicottarlo. Agli occhi dei cittadini, istituire una commissione equivale a rinviare un problema. Dobbiamo tutti ricordare che se il contributo del ridimensionamento dei costi della politica non potrà che dare un miliardo e mezzo o due – finché non ci decidiamo a toccare le Province - è una questione equitativa quella che spinge i cittadini a respingere nuovi aggravi finché la politica non si adegua agli standard più contenuti di tutti gli altri Paesi avanzati.

Anche in materia di liberalizzazioni, sarebbe stato di gran lunga preferibile calcare il piede sull’acceleratore. La liberalizzazione del collocamento va bene, come quella degli esercizi commerciali nei centri turistici, ma dalle professioni alle reti di nuova generazione per le TLC molto di più si può fare, a costo zero ma con grandi benefici per la crescita.

Altro paragrafo che manca dalla manovra, ed è invece di grande importanza a nostro giudizio, è quello delle privatizzazioni. Come e perché non mettere mano all’opera di dismissisone degli oltre 400 miliardi di beni immobili ancora un anno fa stimati dal Tesoro come cedibili a prezzi di mercato? Perché non immaginare che proprio da tale cespite possa venire un abbattimento del debito pubblico nell’ordine di 15 e sinanco 20 punti di Pil, realizzando cessioni che tengano in buon conto la lezione tecnica venuta anni fa coi i veicoli speciali Scip1, Scip2 e Scip3?

Resta l’intero capitolo della delega fiscale. Su di essa, non mi soffermo qui. Ci sarà tempo. Quanto più l’azione di risanamento andrà oltre il minimo indispensabile fissato meritoriamente nella manovra, tanto più libereremo risorse aggiuntive per una riforma non a gettito invariato, come oggi prudentemente si annuncia, bensì volta a diminuire la pressione fiscale complessiva, a favore di impresa e lavoro e per più crescita. Di questo c’è bisogno, per uscire dall’orizzonte piatto che grava su donne e giovani, e soprattutto su quelli del Mezzogiorno.